Il luogo era un’isola, ma
non un’isola qualunque. Tanto per cominciare era artificiale e questo, possiamo
ammetterlo, non era un particolare molto significativo visti i tempi, ma invece
di galleggiare nelle acque stava fluttuando nel cielo e questo sì che non si
vedeva tutti i giorni.
Nel centro dell’isola c’era una costruzione
semisferica. All’interno di questa
costruzione c’era un ampio salone in cui si trovavano un palcoscenico e
svariate file di poltrone.
Sul palcoscenico c’era una donna. Era molto
bella: capelli neri, sguardo intenso, lineamenti raffinati, labbra piegate in
un sorriso crudele, ma non era la sua bellezza ad interessare i suoi
interlocutori in quel momento, quanto, piuttosto, quello che aveva da dire.
Prima di parlare la donna, che indossava una
tuta nera con un colletto rialzato e bordato con alamari dorati, che aveva come
unica altra concessione alla femminilità degli spacchi laterali alle gambe, si
concesse un ultimo sguardo alla sua platea. Davanti a lei c’erano i leader o i
rappresentanti delle più importanti organizzazioni criminali del mondo. In
prima fila rappresentanti di Hydra, A.I.M., Impero Segreto, Spettro Nero, Figli
del Serpente e tanti altri e pendevano tutti dalle sue labbra.
La donna sorrise ancora e poi cominciò a
parlare:
<Signore e signori… sono lieta di vedervi
tutti qui numerosi nonostante le differenze che ci hanno opposto in passato.
Sono la dottoressa Monica Rappaccini, Scienziato Supremo delle Avanzate Idee di
Distruzione. Il nostro… oggetto sociale, diciamo così, è la progettazione e la
realizzazione di armi di distruzione di massa e sono sicura che il nostro ultimo
articolo attirerà la vostra attenzione.>
I PECCATI DEI PADRI
Di
Carlo Monni & Carmelo
Mobilia
Metropolitan Opera House, Lincoln Center,
Upper West Side di New York.
<Ti sei
battuto bene, ma hai perso. Il vincitore sono io.>
Le parole
sferzanti dell’uomo che si faceva chiamare Ali Bey riecheggiarono alle orecchie
di James Buchanan Barnes, alias il Soldato d’Inverno. Il suo avversario aveva
approfittato di una sua distrazione per colpirlo e costringerlo con la schiena
a terra. Ali Bey s’era rivelato un avversario migliore di quanto si aspettasse.
Aveva fallito e per questo degli innocenti avrebbero pagato con la loro vita.
<È ovvio che
non puoi essere “quel” Soldato d’Inverno ... devi essere il secondo o terzo
uomo ad assumere questa carica. Non importa. Sarai tu a pagare al posto del tuo
predecessore...>
Da un fodero
nascosto in una manica estrasse un coltello fatto in ceramica o di altro
materiale che sfuggiva ai metal detector. Era sul punto di eliminare il suo
avversario quando improvvisamente qualcosa colpì il polso del presunto saudita
facendolo urlare di dolore e costringendolo a mollare la presa sul coltello che
cadde a terra.
Nel vano
dell’ingresso al palco era apparsa Yelena Belova nella sua tenuta da Vedova
Nera.
<Fermo o il
mio prossimo colpo sarà mortale, ti avverto.>
Questo sarebbe
andato contro gli ordini di Steve ma Bucky Barnes non perse tempo a chiedersi
se la Vedova stesse bluffando o meno ed approfittò della distrazione del suo
nemico per sferrargli, col taglio della mano, un colpo alla carotide che lo
lasciò senza fiato. Subito dopo lo colpì con un diretto alla mascella che
terminò lo scontro.
<Grazie, mi
hai salvato. Ero spacciato.>
<Doveva
essere davvero in gamba per farla a te. Chi è? Lo conosci?> chiese Yelena.
<Io... non lo
so.> rispose Bucky, visibilmente confuso, e non aggiunse: “E ho paura di
scoprirlo” perché non voleva allarmare la giovane russa.
Sede della Kronas Inc. Manhattan, New York City
Aleksandr
Vasilievich Lukin si permise un attimo di vanità osservandosi allo specchio, ma
era davvero così? Un’occhiata più approfondita avrebbe permesso ad un eventuale
osservatore di capire che quello non era un normale specchio. Dopo che Lukin
ebbe premuto un pulsante nel suo incavo, infatti, lo specchio si trasformò in
uno schermo su cui Lukin poteva vedere un gruppo composto da tre uomini e una
donna, vestiti rigorosamente di scuro, seduti al tavolo delle riunioni. A Lukin interessava soprattutto l’uomo a
capotavola. Era un poco più giovane di lui, fronte alta, tempie appena
spruzzate di grigio, baffetti ben curati. Arthur Dearborn, Presidente e C.E.O.[1] della
nuova Roxxon Energy era un uomo da prendere con le molle sotto molti punti di
vista.
Disattivato lo
schermo Lukin si prese una breve pausa, poi finalmente si decise ed entrò nella
sala riunioni.
<Mister
Dearborn…> disse in perfetto Inglese, sia pure venato da una leggera traccia
di accento russo fatto trasparire ad arte <… spero che le nostre compagnie
possano trovare un accordo proficuo.>
Al Metropolitan, intanto...
Gli uomini dello
S.H.I.E.L.D. arrivarono a prelevare l’uomo ormai neutralizzato. La Vedova Nera,
agente di fiducia di Fury, era rimasta sul posto per fare rapporto su quanto
accaduto, mentre Il Soldato d’Inverno, ufficialmente non riconosciuto, era
sparito dalla scena per evitare di dare spiegazioni. Yelena lo raggiunse nel
posto stabilito quando terminarono le operazioni di prelevamento del
prigioniero.
<Allora è confermato?>
le chiese Bucky.
<Si. Quella
che gli abbiamo trovato addosso era una capsula di gas venefico. Attendeva che
il teatro si riempisse per farlo fuoriuscire e compiere una strage. Per fortuna
lo abbiamo neutralizzato.>
<Anche se c’è
mancato poco. Se lui...> non terminò la frase, divorato da alcuni dubbi.
<Non
pensarci. A chiunque può capitare di sbagliare. Ciò che conta è che lo abbiamo
fermato, missione compiuta.>
<Vorrei
interrogarlo, ho alcune domande da fargli. Hai modo di poter organizzare la cosa?>
<Dovrei
chiederlo a Fury, ma credo che si possa fare. Posso chiederti che cosa ti
ossessiona di lui?>
<Io non ne
sono sicuro ma ... credo di avergli ucciso i genitori.>
La Vedova non
ebbe nulla da aggiungere alla cosa.
Una base
sovietica in Afghanistan. 1983.
L’ufficiale in comando non poteva fare a meno di sentirsi a disagio di
fronte all’uomo davanti a lui, il cui volto era parzialmente celato da una
mascherina in stile domino. Uomo? Per quanto fosse indiscutibilmente fatto di
carne e sangue, gli sembrava piuttosto un robot: impassibile e del tutto privo
di qualunque visibile emozione. Nulla più di una spietata ed efficiente
macchina per uccidere.
La sua vera identità era riservata e lui non aveva le autorizzazioni
per conoscerla. Ripensandoci, nemmeno l’avrebbe voluto. Qualcosa gli diceva che
se avesse saputo il vero nome di quell’uomo prima o poi avrebbe finito con lo
sparire e qualche ufficiale anonimo avrebbe portato alla sua famiglia la
notizia che era caduto sul campo del dovere o qualcosa di simile.
L’ufficiale senti un brivido leggero corrergli lungo la schiena. Meglio
perfino accantonare simili pensieri. Quello davanti a lui era e sarebbe rimasto
solo il Soldato d’Inverno… anche se… dimostrava appena poco più di vent’anni,
come poteva essere lo stesso Soldato d’Inverno il cui nome era sussurrato come
quello di una leggenda da almeno trent’anni? Meglio non farsi nemmeno questa
domanda,
<Bene.> si limitò a dire <Mahmood Ghaznavi era uno dei più
pericolosi capi ribelli. La sua morte disorganizzerà la guerriglia per un bel
po’.>
Non aggiunse, sebbene lo pensasse, che non sarebbe servito a niente:
l’Afghanistan era ormai il Vietnam dei sovietici, questo era chiaro. Vincere
era impossibile, ma non lo si poteva dire: il disfattismo non era un’attitudine
apprezzata nell’Armata Rossa.
<Puoi andare, Soldato.> disse infine,
<Si Signore.>
Mentre incrociava lo sguardo col Soldato d’Inverno, il Colonnello ebbe
la fugace impressione di vederci qualcosa: collera, frustrazione? Fu solo un
istante e poi passò
Il Soldato d’Inverno uscì dalla stanza ed il Colonnello si dedicò a
completare il suo rapporto per il G.R.U.[2]
Herald
Square, 34esima strada, Manhattan.
All’inizio c’era stata un po’ di maretta tra
le varie polizie intervenute, un conflitto giurisdizionale che si era risolto
quando sia i poliziotti che un paio di agenzie federali furono persuasi (molto
malvolentieri, a dire il vero) che era un caso di sicurezza internazionale che
spettava allo S.H.I.E.L.D.
Il conflitto era comunque durato abbastanza
perché l’uomo che si faceva chiamare John Bronson ed aveva usurpato nome e
volto di un agente S.H.I.E.L.D. ucciso anni prima dall’Hydra, si riprendesse
dallo svenimento causatogli da un dardo soporifero sparatogli da Sharon Carter,
quella stessa Sharon Carter che ora lo osservava dubbiosa mentre era portato
via, ammanettato, da due agenti dello S.H.I.E.L.D.
<Ballard.> lo chiamò improvvisamente.
Al suono di quel nome il prigioniero voltò di
scatto la testa e Sharon gli si avvicinò.
<Allora sei davvero tu… Geoffrey Ballard…
non credevo che ti avrei mai visto senza la tua barba.>
<Oh ma guarda chi c’è: l’integerrima
Agente 13… è ancora questa la tua designazione? Ti trovo in forma. Scommetto
che non hai ancora bucce d’arancia su quel tuo bel sedere.>
<Sei il solito porco. Che avevi in mente e
come speravi di farla franca assumendo l’identità di un agente morto?>
<Sei tu quella in gamba, Carter, perché
non lo scopri da sola?>
Sharon decise di ignorare il sorrisetto
beffardo dell’ex agente della C.I.A. e si rivolse ad uno dei suoi carcerieri:
<Dove lo portate?>
<Al quartier generale, come gli altri
due.> rispose l’agente <Lo terremo in una cella finché non sarà
interrogato ed avremo deciso cosa farne.>
<Capisco, grazie.>
Rimase a guardarli mentre salivano in una
delle auto modificate che subito dopo decollò diretta verso l’East River ed il
Palazzo dello S.H.I.E.L.D.
<E noi che facciamo, bionda?> le chiese
Jack Monroe, che fino al quel momento era rimasto in disparte.
<Torniamo al nostro quartier generale e
pensiamo a cosa fare adesso.>
Salirono sulla Porsche Carrera di Sharon che
si mise al posto di guida.
<Cosa c’è?> chiese Jack <Qualcosa ti
preoccupa?>
<Non saprei… è… un pensiero molesto. C’è
qualcosa che non mi quadra in tutto questo: perché tre aspiranti attentatori
dovrebbero venire qui usando alias che li rendono immediatamente identificabili
come tali? Dovevano sapere che li avremmo tenuti d’occhio e fermati e che anche
se gli attentati fossero riusciti li avremmo subito presi, quindi perché…
perché? Se non sembrasse assurdo direi che…>
<… che volessero essere presi.>
completò Jack.
Sharon spalancò la bocca ma per un attimo non
riuscì a parlare, poi esclamò:
<Ma certo! Era questo che volevano, che
hanno sempre voluto.>
Sharon azionò un comando e l’auto cominciò a
sollevarsi mentre le ruote si mettevano in posizione orizzontale
<Devo avvertire Steve.> disse.
Un bar della città bassa nell’isola-Stato di
Madripoor.
La donna dai lunghi capelli biondi sedeva da
sola in un tavolo appartato. Ogni sera entrava nel locale e, indifferente agli
sguardi degli avventori, sedeva allo stesso tavolo, si faceva portare una bottiglia
di vodka e restava finché non l’aveva finita tutta, poi andava via.
Raramente capitava che qualcuno le rivolgesse
la parola, c’era qualcosa in lei che sconsigliava istintivamente di farlo:
un’aura di pericolo che perfino in quel locale, in quella parte della città, in
quell’isola così famigerata, incuteva timore a uomini e donne scafati a tutto.
Era accaduto che un paio di avventori avesse
tentato un approccio pesante con lei.
Uno era finito in ospedale con una gamba ed un braccio rotti, senza
contare un bel po’ di costole ed i denti, e l’altro… beh meglio tacere sulla
sorte dell’’altro.
Quella sera era a metà della bottiglia quando
un uomo biondo si sedette davanti a lei.
<Fila via.> lo apostrofò lei
<Vattene finché hai ancora le gambe per farlo.>
L’altro non si scompose e sorrise dicendo:
<Fossi in lei, prima di fare qualunque
cosa aspetterei di sapere cosa ho da proporle, madame Sokolova.>
<Sai chi sono?> c’era una nota di
stupore ma anche di interesse nella voce della donna. Nei suoi occhi azzurro ghiaccio
c’era lo stesso sguardo di una belva ferita.
<Melina Alexievna Sokolova, nota anche
come Melina Sokoloff o Von Sokoloff, nata a Serov, nell’Oblast di Sverdlovsk,
Federazione Russa il… possiamo omettere questo dettaglio del tutto ininfluente…
arruolata nei servizi segreti del tuo paese, sei stata inserita in un programma
speciale noto col nome in codice di Stanza Rossa. C’è stata una sola allieva
che abbia ottenuto un punteggio migliore del tuo: la Vedova Nera… e intendo
Natasha Romanoff, non la ragazzina saltata fuori negli ultimi anni.>
<Non sottovalutarla: se ha superato
l’addestramento della Stanza Rossa deve essere in gamba per forza.>nella
voce della donna il tono interessato era adesso più palpabile. Il biondo seppe
di averla agganciata.
<Non ne dubito.> disse <Ma torniamo
a te. Superato l’addestramento ti dettero un nome in codice: Zheleznaya
Deva, Iron Maiden nella mia lingua, un
nome ispirato da uno strumento di tortura che altrove conoscono anche come
Vergine di Norimberga. Diventasti uno
dei loro assassini più efficienti. Si diceva che nessuno potesse arrivarti
vicino abbastanza da vederti ed essere ancora vivo subito dopo. Il tuo problema
era che non sopportavi di venire dopo la Vedova Nera… per tacere del Soldato
d’Inverno.>
<Il
soldato d’Inverno non esiste, è una leggenda.>
<Se
lo credi davvero, potresti restare sorpresa.
In ogni caso alla fine decidesti di disertare e ti mettesti in proprio.
Non fu una scelta molto felice.>
Negli
occhi della donna un lampo di collera.
<Chi
ti credi di essere per…>
<La
verità fa male, non è vero? Così stanno le cose, però e non puoi farci niente.
Metterti al servizio di quel megalomane
di Damon Dran fu una pessima idea. Ti scontrasti con la Romanova e lei ti
inflisse un’umiliante sconfitta.[3]-
-Tu…
sporco…>
La
donna conosciuta come Iron Maiden scattò di colpo in piedi e provò a sferrare
un colpo all’uomo seduto davanti a lei, che le afferrò il polso con facilità,
bloccandone lo slancio.
<L’alcool
rallenta i riflessi, peccato per te.> ribatté lui mentre costringe la sua
interlocutrice a rimettersi a sedere
<Come ho detto, la verità fa male, ma bisogna avere il coraggio di
affrontarla e, credimi, tu lo farai.
Dov’ero rimasto? Ah sì… ti unisti all’esercito di mercenarie di quella
mattoide di Superia, ma anche lì ti andò storta. Sei passata da una sconfitta
all’altra, ti hanno umiliata, trattata come se tu fossi di seconda… no: di
terza categoria… alla fine hai ceduto: sei venuta a nasconderti qui ed ora
anneghi quel che resta della tua vita nell’alcool… o almeno ci provi. Un grande
spreco per una col tuo talento.>
<Falla
corta, cosa vuoi?>
<Darti
un’occasione di riscatto, di far parte di un grande progetto in cui i tuoi
talenti sarebbero valorizzati ed apprezzati. Ma se invece preferisci
l’autocommiserazione e l’autodistruzione… >
Melina
Sokolova abbassò lo sguardo verso la bottiglia di vodka e si chiese se davvero
quello che voleva era nascondersi per sempre in quel luogo dimenticato da Dio.
Negare se stessa, quello che era stata e che poteva ancora essere? La risposta
non poteva che essere una sola.
Quando
rialzò lo sguardo, nei suoi occhi c’era ferrea determinazione e così nella sua
voce:
<Dimmi
di più mister… qualunque sia il tuo nome.>
<Oh,
giusto… mi sono dimenticato di presentarmi: mi chiamo Rogers, Mike Rogers.>
South
Bronx, New York, non lontano dal nuovo Yankee Stadium.
Steve
Rogers non avrebbe saputo dire perché fosse rimasto da quelle parti dopo che il
suo avversario era stato portato via dagli uomini di Fury. Forse era colpa
delle perplessità che aveva sulla missione o forse era semplicemente il
desiderio di vedere qualcosa di quella parte di New York. Il South Bronx non
era più degradato come un tempo, e lottava duro per riconquistare la sua
dignità, tuttavia bastava guardarsi intorno per capire che il cammino era
ancora lungo. Appena fuori dalla zona
dello stadio si potevano vedere i segni lasciati dalla lunga stagione degli
incendi degli anni 70, le prostitute in fila sui marciapiedi e gli spacciatori
agli angoli delle strade o all’ingresso di strette viuzze.
Steve stava tornando verso il parcheggio
sotterraneo dove aveva lasciato la sua auto quando un paio di ragazzi gli
tagliarono la strada. Uno di questi tirò fuori un coltello.
<Sta
buono amico. Andrà tutto bene se non ti agiti.> La voce aveva un chiaro
accento ispanico.
Steve
si voltò e vide altri quattro altrettanto armati, di cui due sembravano
minorenni. Membri di una banda, sicuramente.
<Che
cosa vuoi?> chiese.
<Tutto
quello che hai nelle tasche, gringo:
portafoglio, carte di credito proprio ,tutto insomma... e fa in fretta!>
<Che
spreco> pensò Steve con un velo di tristezza. Si sentì invadere
dall’indignazione: non era questa l’America per cui aveva combattuto e che
aveva sperato di trovare quando si era risvegliato dall’ibernazione.
Con
calma si tolse gli occhiali, li ripiegò e li mise nel taschino della giacca.
<Fossi
in voi metterei via quelle armi e me ne andrei a casa. Avete bisogno di aiuto.
È un consiglio da amico.>
<Ma
lo sentite? Ha un coltello puntato alla gola e ci minaccia. Minaccia noi! Credo
invece che ti sbudellerò amico...>
Con
una rapidità che li sorprese Steve gli afferrò il polso destro e lo torse con
un movimento rapido.
<Non
era una minaccia.> disse <Io non minaccio mai. Era un consiglio che tu ed
i tuoi amici avreste fatto meglio a seguire.>
Si
mosse troppo veloce per loro. Avevano imparato la lotta di strada, ma non erano
preparati a lui.
In
pochi istanti erano tutti quanti a terra con più di un’ammaccatura. Nulla di
troppo serio, non era il suo stile. Si chiese se avrebbero capito la lezione,
ma concluse amaramente di no.
Steve
si rimise gli occhiali e allontanò nell’indifferenza dei presenti. Fu proprio
quando era vicino alla sua auto che arrivò la chiamata di Sharon.
<<Steve… abbiamo sbagliato
tutto.>>
<Calmati,
che vuoi dire?>
<<Quei tre volevano essere
catturati. Il loro vero bersaglio è il palazzo dello S.H.I.E.L.D. e forse anche
quello dell’ONU lì a fianco. Non so come intendano agire ma è chiaro che
volevano essere portati lì,>
Ora
tutto ha senso, pensò Steve. Una complicata opera di depistaggio, perfino
l’attentato al teatro che stava per provocare tutti quei morti. Quale mente
perversa poteva averlo pianificato? Non era il momento di porsi simili domande.
<Dove
sei?> chiese a Sharon.
<Jack ed io stiamo raggiungendo
il palazzo.> rispose lei.
<Ed
io raggiungerò voi. Non aspettatemi: agite subito. Dovete fermarli a qualunque
costo. Avvertite gli altri. Io vi raggiungerò dopo.>
Steve
si liberò rapidamente degli abiti civili rivelando la sua uniforme da
combattimento poi saltò sulla sua auto volante e partì mentre
contemporaneamente lanciava una chiamata alla base.
<Qui
comandante Rogers. Mi ricevi Amadeus?>
<<Forte e chiaro,
comandante.>>
<Ho
bisogno che tu mi procuri dell’attrezzatura particolare ...>
760 United Nations Plaza, New York.
Il palazzo era piuttosto alto, ma passava quasi inosservato, perché accanto a lui sorgeva una costruzione ancora più imponente, celebre e vistosa: il palazzo di vetro, la sede centrale delle Nazioni Unite. Eppure quell’edificio era ugualmente importante, addirittura indispensabile alla difesa del mondo libero. Seppur meno attrezzato e spettacolare dell’Eliveicolo, quello era ufficialmente il Quartier Generale ufficiale dello S.H.I.E.L.D. Perlopiù c’erano gli uffici dei dirigenti (spesso vuoti, perché Fury e gli altri preferivano esercitare il proprio comando direttamente sulla base volante) e personale amministrativo, ma anche istruttori altamente qualificati che addestravano le giovani reclute. Era lì che nascevano le spie migliori del mondo e dove venivano addestrate ed equipaggiate per combattere la lotta al terrorismo. Jasper Sitwell, Valentina Allegro de La Fontaine, Sharon Carter, Clay Quartermain, Bobbi Morse... tutti gli agenti più famosi e preparati dello S.H.I.E.L.D. erano passati per questa accademia. Non solo, ma ai livelli più bassi c’era anche un reparto detenzione, dove venivano trattenuti e interrogati i prigionieri catturati dagli agenti sul campo.
Era lì dunque che Ali Bey,
Manuel Caballero e John Bronson – alias Geoffrey Ballard – erano stati portati dopo
essere stati catturati.
I Vendicatori Segreti, come si erano
ribattezzati quasi per scherzo, raggiunsero il palazzo per avere un colloquio
con loro. All’ingresso però impedirono a loro di entrare.
<Sono l’ex direttrice Sharon Carter,
l’agente 13. Lei è il tenente Yelena Belova, agente della sezione russa agli
ordini del direttore Brevlov. Questi due uomini sono con noi, abbiamo il
permesso di Fury di poterli accompagnare nella struttura. Dobbiamo interrogare
i prigionieri.>
<Non è possibile agente 13. Non possiamo
far entrare nessuno. Protocollo di sicurezza AA di 1 livello. I piani dal
quinto al decimo sono in stato di quarantena. Delle pareti sigillanti sono
calate automaticamente. Pare che il palazzo sia sotto attacco nemico. >
<Lo sapevo ... siamo arrivati tardi!>
disse la bionda.
Stesso posto, mezz’ora prima.
Ali Bey era seduto e immobilizzato nella sala
degli interrogatori. A occuparsi di lui c’era l’istruttore Scott Hopkins e
l’agente di livello 7 Marcus Baldry. Il primo aveva la stazza di un giocatore
di football, forte come un bue, ed era specializzato nell’insegnamento del
corpo a corpo; il secondo aveva un aspetto più ordinario, occhialuto e
stempiato, ma era un vero conoscitore del linguaggio del corpo e un esperto nel
condurre questo tipo di interrogatori.
<Ti conviene iniziare a parlare, faccia
di merda. Abbiamo parecchi sistemi per scioglierti la lingua.> inizio
Hopkins.
<Sappiamo che quello non è il tuo vero
volto e che non sei chi dici di essere.> aggiunse Baldry < Sappiamo anche
che il tuo piano era quello di avvelenare il teatro con quella capsula di gas
tossico. Vogliamo sapere perché… a che pro compiere quella strage. E tu ce lo
dirai, oltre a rispondere ad altre domande tipo “Chi sei?” e “per chi
lavori?”>
Ali non pareva minimamente intimorito
dall’atteggiamento da duro dei due agenti. Li guardava con aria sprezzante. I
suoi occhi neri brillavano una glaciale sicurezza.
<Vi credete dei duri, voialtri, non è
vero? “Il
meglio del meglio”... siete
dei buffoni, ve lo dico io. Questa pagliacciata dello “sbirro buono e sbirro cattivo” poi... ma chi ci casca
più?>
<Me le stai facendo girare. T’avverto,
inizia a parlare altrimenti...>
<Altrimenti “cosa” eh? Chiederai al tuo
fidanzato qui presente di aiutarti a pestare un uomo con le mani legate?>
Hopkins perse le staffe e lo colpì in faccia
con un pugno. Ali iniziò a perdere
sangue dalla bocca e quindi a ridere come un ragazzino dispettoso.
<Hai appena firmato la tua condanna a
morte, idiota...> e dopo aver detto cosi Ali sembrò mordere il molare che il
colpo appena ricevuto gli aveva quasi staccato.
Nel giro di pochi minuti, Hopkins e Baldry
si agitarono in preda a degli spasmi muscolari e dolori atroci, per poi alla
fine cadere a terra, morti stecchiti.
Ali sputò sui loro cadaveri con aria di
disprezzo.
<Cani americani ... vi distruggeremo tutti...>
Da
qualche parte in unione Sovietica. 1983.
L’uomo era anziano, molto anziano ed aveva bisogno
di un bastone per camminare. Indossava una divisa logora su cui spiccavano
parecchie medaglie.
<Indossavo questa giacca quando entrammo a
Berlino.> disse <Mi piace portarla. Mi ricorda per cosa abbiamo combattuto,>
<Capisco, signore.> disse il suo attendente.
<Mi chiedo se lo capisci davvero...>
<Generale Karpov, benvenuto signore.>
Il Maggior Generale Vasily Karpov si concesse un
breve sorriso: lui ed il dottor Kasparov erano i soli rimasti in giro del team
originale del Progetto Soldato d’Inverno e quando avevano iniziato Kasparov era
solo un giovane assistente i cui capelli erano tutti biondissimi. Presto,
Karpov se lo sentiva, sarebbe rimasto l’unico… l’unico a parte il Soldato,
s’intende,
<Come sta... lui?>
<Bene… anche se stavolta mi è sembrato più
nervoso del solito.>
Karpov guardò verso un contenitore criogenico chiuso
ermeticamente ma dal cui coperchio trasparente si poteva vedere un uomo
apparentemente immerso in un sonno profondo.
<Non è una macchina, dopotutto.> disse con un
tono da cui traspariva quasi dell’affetto <Anche se ci piacerebbe crederlo.
Gli abbiamo rubato la vita, possiamo dire. Lo abbiamo privato di tutto ciò che
rende una vita degna di essere vissuta ed un giorno ne pagheremo tutti il
prezzo, me lo sento.>
Nessuno seppe cosa ribattere.
Davanti
all’ingresso del Quartier Generale dello S.H.I.E.L.D. Adesso.
<Dobbiamo trovare il modo di entrare!> disse
la Vedova Nera.
<È escluso> gli rispose Sharon <il palazzo
ha un protocollo di sicurezza che sigilla il palazzo in modo da impedire a
chiunque di entrare o uscire. Se qualcuno prova a farlo, entro dieci minuti la
base si riempie di una schiuma ad indurimento istantaneo altamente
infiammabile, che trasformerà il palazzo in un vero “inferno di cristallo” che
ridurrà in cenere ogni cosa. È un procedimento standard per impedire a qualcuno
di mettere mano tra i segreti dello S.H.I.E.L.D.>
<In questo modo però il virus rimane sigillato
all’interno> osservò Nomad.
<Si, e anche la possibilità di ricavarne un
antidoto studiandone un campione ... e se dovessero riprovarci ...>
La giovane russa imprecò nella sua lingua madre.
Sharon si sentiva in colpa per non aver intuito prima il piano dei terroristi.
Se lo avesse fatto, si sarebbe potuto evitare questa tragedia.
<Ma dov’è il comandante Rogers?> chiese
ancora Yelena <Non dovrebbe essere già qui?>
<Ehi non è il solo che manca... qualcuno ha
visto dove s’è cacciato Bucky?> aggiunse Jack.
Continua
NOTE DEGLI
AUTORI
Note
veramente al risparmio a questo giro perché, in fondo, tutto quello che serve
sapere è già detto nella storia e non c’è molto da aggiungere.
Per
chi se lo chiedesse, vale, forse, la pena di precisare che in MIT lo
S.H.I.E.L.D. è ancora un’agenzia dell’ONU ed ha il suo quartier generale
proprio di fianco al famoso Palazzo di Vetro anche se Nick Fury e soci lo
frequentano raramente. Nella sua storia questa palazzina è stata oggetto di un
gravissimo attentato da parte dell’Hydra proprio nel giorno della cerimonia di
consegna dei diplomi ai nuovi agenti in Nick Fury Agent of S.H.I.E.L.D. Vol. 2°
#25 (In Italia su Iron Man, Play Press, #45).
Nel prossimo episodio. Una corsa contro il tempo per evitare una
catastrofe, il Soldato d’Inverno a confronto col suo passato e tanto altro
ancora.
Carlo & Carmelo